In ascolto di Esodo

La Menorah – Il candelabro a 7 braccia (seconda parte)

In ascolto di Esodo (Es 25,31-40).

a cura di Gianmartino Durighello e del Gruppo Esodo

* Il candelabro che siamo noi (la lettura mistico-allegorica di Antonio da Padova)

Menorah, Joel Arthur Rosentha, Museo Ebraico di Roma.

Il Signore ci dona di sostare ancora su questa Parola di Esodo in questo santo tempo di Avvento, nell’accoglienza della sua venuta. Tra la venuta storica, nella carne e la venuta escatologica, nella gloria, viviamo ogni giorno questa venuta “invisibile” (come dice san Bernardo) nella grazia. Come vergini prudenti che attendono lo Sposo accendiamo allora la menorah… che siamo noi.


Nella precedente riflessione abbiamo ascoltato la Parola di Esodo nella quale Dio comanda a Mosè la costruzione della menorah, il candelabro a 7 braccia, che dovrà essere collocato non nel Santo dei Santi (dove è posta l’arca con le tavole dell’alleanza e il propiziatorio), ma nella prima tenda, il Santo, con la funzione di irradiare luce dal tabernacolo sul mondo intero. Sarà costituito da un unico blocco d’oro massiccio e la sua fiamma dovrà essere perenne.

Ci siamo soffermati a considerare in modo particolare le decorazioni floreali a forma di fiori di mandorlo.  E abbiamo contemplato come per allitterazione il termine mandorlo in ebraico richiami la dimensione della vigilanza, fino a considerare come noi siamo chiamati ad essere candelabro vivente che perennemente arde e illumina il mondo.

Dio è luce e in questo esodo terreno ci chiede di tenere sempre accesa la luce del suo tempio, di divenire noi stessi luce, secondo l’immagine e il modello del suo Figlio, luce venuta nel mondo.

Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli. [Mt 5,14-16]

Oggi vorremmo approfondire questo aspetto, questa nostra vocazione ad essere luce, con l’aiuto di un prezioso amico, sant’Antonio di Padova. Il santo cita questo passo del Vangelo di Matteo in relazione alla parola di Esodo in un sermone su santo Stefano protomartire, la cui festa liturgica celebriamo il giorno dopo il santo Natale:

Farai un candelabro…”. Leggiamo in Matteo: “Non accendono una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il candelabro perché faccia luce per tutti quelli che sono in casa” (Mt 5,15). Infatti la grazia dello Spirito Santo, “lampada che arde e risplende” (Gv 5,35), fu posta sopra il candelabro, cioè sul beato Stefano, come dice Zaccaria: “Vedo un candelabro tutto d’oro, e una lampada è sulla sua sommità” (Zc 4,2).
[Sermone per la Festa di santo Stefano protomartire]

Così Antonio ci aiuta ad ascoltare questa parola di Esodo applicando a noi, alla nostra vita, cosa significa “farai un candelabro”.

Lo farai di oro puro. Sarà lavorato a martello. Nella lettura allegorica di Antonio l’oro rappresenta l’aurea povertà. Il fatto che sia lavorato a martello indica la duttilità, in quanto è lavorato “battendolo”. Le battiture possono essere le tribolazioni esterne che la vita ci dà. Ma soprattutto l’atto volontario di lasciarsi “battere” interiormente nella contrizione e nella compunzione del cuore.

In questa tenda della testimonianza, il candelabro d’oro, battuto a mano, con sette lumi, raffigura la compunzione del cuore d’oro del giusto, che è percosso da molteplici sospiri come da tanti martelli.
[Sermone per la Domenica II di Quaresima]

Il candelabro deve essere costruito tutto nell’aurea povertà, quindi, ed essere duttile al soffio dello Spirito e alla volontà del Padre. Candelabro di oro puro lavorato a martello, battendolo, sono le vite dei santi martiri, come appunto Stefano, il protomartire.

Duttile, battuto con il martello. L’anima viene lavorata e, per così dire, spianata e allargata verso l’amore del Redentore dal martello della contrizione; con le battiture l’anima matura, si dilata, perché “gode chi è paziente nelle durezze”. (…)
E poiché con le battiture della contrizione si giunge alla purezza del cuore, dice appunto: “di oro purissimo”. E l’Apocalisse: “La città stessa è di oro puro, simile a terso cristallo” (Ap 21,18). L’anima del giusto, sede o città della sapienza, è detta oro puro, perché risplende per la purezza dei pensieri; e se talvolta, per la fragilità della condizione umana, si copre di qualche macchia, immediatamente la rivela, come un terso cristallo, nella confessione, e così progredisce nell’amore di Dio e del prossimo.
[Sermone per la Festa di santo Stefano protomartire]

Le battiture della contrizione sono così la via che conduce alla purezza del cuore, oro purissimo.

La tenda della testimonianza – ci dice ancora Antonio –  raffigura il giusto. “Tenda” perché la sua vita sulla terra è un combattimento.

(Sono) i poveri di Cristo, i quali, segnati con il carattere della sua povertà, finché sono in questo mondo, sono come in esilio.
[Sermone per la Pasqua del Signore I]

La tenda è il luogo sommo dell’incontro tra Uomo e Dio. È però questa tenda una tenda mobile – lo ricordiamo – che accompagna il popolo nel suo esodo. Ecco allora che la tenda richiama anche il combattimento continuo che l’uomo deve affrontare in questo esilio.

L’amico Michele ci richiama alla mente una immagine che più volte dall’inizio del suo pontificato papa Francesco propone, l’immagine della Chiesa come un «ospedale da campo». Una immagine che diventa il progetto programmatico della sua Evangelii gaudium:

Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia.
(papa Francesco in “L’Osservatore Romano”, 21 settembre 2013).

Flavia sottolinea ancora come il soggetto, nel sermone di Antonio, siano i poveri, i poveri di Cristo. La tenda della testimonianza è allora il giusto, il povero di Jaweh, povero di Cristo. Puro di cuore che come un combattente in questo esilio non cessa di curare le ferite, tutto proteso nell’amore verso Dio e verso il prossimo.

L’uomo è chiamato ad essere questa tenda, dimora di Dio con noi. In questa tenda che siamo noi il candelabro è l’anima, i 6 bracci le virtù e le 7 lucerne: la grazia dello Spirito santo, la fede nel Verbo incarnato. l’amore verso il prossimo, l’insegnamento della Parola di Dio, la luce del buon esempio, la retta intenzione dell’animo, la costanza dei propositi.

Della grazia dello Spirito Santo dice Giobbe: “La sua lampada brillava sopra il mio capo, e alla sua luce io camminavo anche in mezzo alle tenebre” (Gb 29,3). La lampada brilla sopra il capo quando la grazia illumina la mente, e allora tra le tenebre del presente esilio vede chiaramente dove mettere il piede delle opere. [Sermone per la Festa di santo Stefano protomartire]

Antonio continua il suo sermone nella festa di santo Stefano prendendo l’esempio della donna della parabola che per cercare la dramma perduta accende la lucerna. Così è la fede nel mistero del Verbo incarnato:

Sulla fede nel Verbo incarnato leggiamo in Luca: “Quale donna, se ha dieci dracme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa finché non la ritrova? (Lc 15,8). (…) La donna, cioè la Sapienza di Dio Padre, “accese la lampada” quando nella fragile creta della nostra umanità pose la luce della sua divinità. E così “spazzò la casa”, cioè il mondo e l’inferno, “finché la ritrovò.

Lampada che arde è allora innanzitutto la legge dell’amore, dalla quale dipendono la Legge e i profeti (cf. Mt 22,40):

Sull’amore verso il prossimo è scritto nei Proverbi: “Il precetto è lampada, la legge è luce, le correzioni della disciplina sono sentiero di vita” (Pro 6,23). “Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate a vicenda” (Gv 13,34): questo comandamento “è la lampada”; “chi ama il suo fratello dimora nella luce, chi lo odia dimora nelle tenebre” (1Gv 2,10-11).

Lampada che arde sono le correzioni della disciplina:

E “le correzioni della disciplina” sono “sentiero di vita”, sentiero cioè che conduce alla vita. Dice infatti l’Apostolo: “Ogni correzione non sembra, sul momento, causa di gioia, ma di tristezza”: ecco la correzione; “dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per mezzo suo sono stati addestrati” (Eb 12,11): ecco la via della vita.

Lampada che arde è l’insegnamento della Parola di Dio:

Sull’insegnamento della Parola di Dio dice il salmo: “La tua Parola è lampada ai miei passi” (Sal 118,105); e Pietro: “Abbiamo conferma migliore della parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori (2Pt 1,19).

Lampada che arde è il buon esempio delle opere:

Sulla luce del buon esempio parla Luca: “Siate pronti con i fianchi cinti e in mano le lampade accese” (Lc 12,35). E Gregorio: “Abbiamo in mano le lampade accese, quando con le buone opere mostriamo al nostro prossimo esempi luminosi”.

Lampada che arde è la retta intenzione del cuore:

Sulla retta intenzione dell’animo leggiamo in Matteo: “La lampada del tuo corpo è l’occhio. Se il tuo occhio sarà chiaro, tutto il corpo sarà nella luce” (Mt 6,22). L’occhio simboleggia l’intenzione, il corpo l’opera. Se l’intenzione sarà chiara, vale a dire senza pieghe oscure, tutta l’opera sarà nella luce, perché illuminata dalla lampada della retta intenzione.

Lampada che arde è la perseveranza dei buoni propositi:

E infine sulla costanza nei propositi, leggiamo nei Proverbi, dove si parla della donna forte: “La sua lampada non si spegne neppure durante la notte” (Pro 31,18). È come dicesse: la notte della tentazione diabolica non spegne la luce dell’anima costante.

In una immagine che tutte le racchiude, noi saremo candelabro acceso e che arde a immagine di Cristo luce vera, se vivremo nel duplice comandamento dell’amore, verso Dio e verso il prossimo, raffigurato dai bracci del candelabro che dal fusto centrale si dipartono sei verso destra, sei verso sinistra.

Sei bracci si dirameranno nei due lati. I sei bracci del candelabro sono nel giusto come delle braccia amorose con le quali l’anima abbraccia Dio e il prossimo. Di queste braccia con i quali abbraccia Dio, è detto nel Deuteronomio e in Luca: Amerai il Signore, Dio tuo, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutte le tue forze (Dt 6,5; Lc 10,27).

Su queste braccia ci sono le coppe, le sferette e i gigli.

Le coppe raffigurano la grazia della dottrina celeste, dalla quale bevono gli amici e si inebriano i più cari, i parenti. Questa è la coppa d’argento di Giuseppe, nascosta nel sacco di Beniamino (cf. Gn 44,2.12), cioè nel cuore del giusto.
Nelle sferette (che ruotano) è simboleggiato il rotolare del peccato verso la confessione. Dice Isaia: “Prendi la cetra”, cioè la confessione, “percorri la città”, cioè la tua memoria o la tua vita, per rivoltare tutto e nulla resti nascosto, “canta in modo giusto” accusando te stesso, “ripeti il tuo canto” dando la colpa a te stesso e piangendo “affinché tu sia ricordato” (Is 23,16) al cospetto di Dio.
Nei gigli è simboleggiata la luminosa e soave compagnia delle beate schiere angeliche. Il diletto si pasce tra i gigli, (cf. Ct 2,16), e dice: “Il vincitore indosserà vesti bianche” (Ap 3,5). Anche l’angelo della risurrezione apparve rivestito di una veste candida (cf. Mc 16,5). Colui che è benedetto nei secoli eterni conduca anche noi a ricevere questa candida veste.

Il sacramento della Confessione è dipinto da Antonio come una cetra. Pensiamo alla Confessione come a un canto melodioso. Prendiamo la cetra in mano e percorriamo tutta la città, ossia tutta la nostra vita, e ripetiamo il nostro canto, accusando noi stessi e piangendo sul nostro peccato… è questa la via della compunzione che ci prepara un cuore puro, pronto ad ardere di amore.

Ancora nel sermone nella festa di santo Stefano Antonio medita sulla collocazione delle lampade a meridione e sul loro orientamento a settentrione (Nm 8,2):

Queste sette lampade devono essere poste nell’anima, in modo da essere rivolte a settentrione, contro l’Aquilone, cioè contro il diavolo, affinché l’anima, da esse illuminata, sia in grado di scoprire le astuzie di satana e di difendersene (…)
Osserva infine che il Signore ha comandato che questo candelabro “sia eretto nella parte meridionale”, e non in quella occidentale. La parte meridionale raffigura la vita eterna: “Dio – dice Abacuc – verrà da meridione” (Ab 3,3). L’anima del fedele, quando si alza per compiere un’opera buona, si alzi dalla parte di mezzogiorno, in modo che tutto ciò che fa, sia fatto non per la vacua gloria del mondo ma per la gloria celeste. “Farai dunque un candelabro”!

Farai dunque un candelabro! Ossia: puro di cuore e duttile come l’oro puro, ti lascerai plasmare per essere candelabro vivente che arde nella carità, battuto dal martello delle tribolazioni e della contrizione. Candelabro vivente che arde d’amore per Dio e per il prossimo. Ora infatti viviamo un secondo tempio, che è l’anima stessa del fedele. Noi siamo la Tenda nella quale Dio vuole porre la sua dimora.

Del secondo tempio, che è l’anima fedele, dice l’Apostolo: “Santo è il tempio di Dio, che siete voi” (1Cor 3,17). In questo tempio dobbiamo portare il candelabro della carità, l’altare degli incensi, cioè una mente devota, e la mensa dell’offerta, cioè la parola della sacra predicazione.
Del candelabro della carità si parla nel libro dell’Esodo, quando il Signore dice a Mosè: “Farai un candelabro duttile di oro purissimo, e da esso partiranno le coppe, le sfere e i gigli. Dai due lati si dirameranno sei bracci, tre da un lato e tre dall’altro” (Es 25,31-32).
«Duttile» significa che si può lavorare a martello. Il candelabro della carità viene battuto con il martello della tribolazione, perché la carità, una volta nata, cresca non in sé, ma nella mente dell’uomo. Dice infatti Agostino, commentando la prima lettera di Giovanni: La carità perfetta è questa: che uno sia pronto anche a morire per i fratelli. (…)
Il candelabro della carità poi è fatto di oro purissimo. Infatti la carità non ammette alcun difetto o vizio: essa è più preziosa di tutte le altre virtù, proprio come l’oro è più prezioso di tutti gli altri metalli.
Da questo candelabro devono diramarsi le coppe, le sfere e i gigli.
La coppa, che nella sua cavità contiene ciò che vi si versa e lo porge per bere, è simboleggiata l’umiltà unita alla compunzione della mente. La concavità infatti è in grado di ricevere ciò che vi si versa, il rigonfiamento (la convessità) invece lo respinge.
Nella sfera, che gira all’intorno, è simboleggiata la sollecitudine per le necessità del prossimo.
Nei gigli è indicato il nitore della castità.
Perciò tu, che hai la carità, abbi anche le coppe nei riguardi di Dio, le sfere nei riguardi del prossimo e i gigli nei riguardi di te stesso.
Considera anche che il candelabro della carità ha sei bracci, tre a destra e tre a sinistra, con i quali abbraccia Dio e il prossimo.
[Sermone per la Domenica XX dopo Pentecoste]

Ardere perennemente della stessa luce della carità di Cristo che è luce. Allora – conclude Antonio: – il tempio sarà veramente santo e in esso abiterà Dio. [Domenica XX dopo Pentecoste]

L’amico Gianantonio ci ricorda che secondo la visione mistico simbolica della tradizione cabalista i 7 bracci della menorah corrispondono ai 7 giorni della Creazione! Vegliamo allora, attendiamo lo Sposo, accogliamo il re che viene bambino a rinnovare la sua Creazione, a fare davvero del nostro cuore il suo santo tempio che arde della luce della Carità.

Allora il tempio sarà veramente santo e in esso abiterà Dio!

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