In ascolto di Esodo

Il Vecchio portava il Bambino, e il Bambino reggeva il Vecchio

In ascolto di Esodo (Es 25,10-16).

a cura di Gianmartino Durighello e del Gruppo Esodo

Faranno dunque un’arca di legno di acacia: avrà due cubiti e mezzo di lunghezza, un cubito e mezzo di larghezza, un cubito e mezzo di altezza. La rivestirai d’oro puro: dentro e fuori la rivestirai e le farai intorno un bordo d’oro. Fonderai per essa quattro anelli d’oro e li fisserai ai suoi quattro piedi: due anelli su di un lato e due anelli sull’altro. Farai stanghe di legno di acacia e le rivestirai d’oro. Introdurrai le stanghe negli anelli sui due lati dell’arca per trasportare con esse l’arca. Le stanghe dovranno rimanere negli anelli dell’arca: non verranno tolte di lì. Nell’arca collocherai la Testimonianza che io ti darò.

Giotto di Bondone, Presentazione di Gesù al Tempio, 1303-1305, Cappella degli Scrovegni, Padova (scena n.19 del ciclo Vita di Cristo)

Faranno dunque un’arca…
Dopo aver chiesto un libero contributo a ogni figlio del popolo di Israele, e dopo aver dato il modello… ecco dunque che Dio dà a Mosè le precise indicazioni per come deve essere costruita l’arca, riguardo le misure e i materiali: l’arca vera e propria (’arôn), la cassa che deve contenere le tavole della Testimonianza; e il propiziatorio (kapporet), del quale ascolteremo nei prossimi versetti.

Oggi ci soffermiamo quindi sull’arca vera e propria, ossia sulla cassa/cofano che dovrà custodire le tavole della Testimonianza.

Essa dovrà essere:
– in legno d’acacia
– delle misure di 2 cubiti e mezzo in lunghezza, 1 cubito e mezzo in larghezza e 1 cubito e mezzo in altezza
– rivestita d’oro all’interno e all’esterno

Dovrà inoltre avere per il trasporto:
– 4 anelli d’oro, due per lato
– 4 stanghe in legno d’acacia rivestite d’oro inserite stabilmente negli anelli

* l’arca di Mosè e… l’arca di Noè
Chiaramente l’arca di Noè era tutt’altra cosa da questa di Mosè, ma ci viene spontaneo il riferimento. Pur nella diversità, sono molte infatti anche le analogie.

L’arca di Noè è una cosa ben diversa da una cassa o da un cofano, dovendo ospitare e preservare Noè e famiglia e ogni specie di esseri animali dalle acque del diluvio.  Gli stessi vocaboli in ebraico sono diversi: l’arca di Noè è tevah, che può significare anche “Parola”. Ma soprattutto i due racconti rappresentano entrambi una nuova creazione nell’acqua del diluvio (Noè) e del Mar Rosso (Mosè) e diventano per i cristiani letture tipiche del cammino catecumenale, in preparazione al battesimo nella veglia pasquale.

Per Noè come per Mosè l’esperienza dell’arca è legata a un’esperienza di Alleanza e a una parola di legge per il popolo (la legge noachica e la legge mosaica).

Anche per l’arca di Noè la tradizione vede la simbologia di un corpo, del corpo di Cristo:

L’arca è senza dubbio allegoria della città di Dio esule nel tempo, cioè della Chiesa che ottiene la salvezza mediante il legno nel quale fu appeso il Mediatore di Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù.
Le misure stesse della lunghezza, altezza e larghezza dell’arca simbolizzano il corpo umano perché si ebbe l’annunzio profetico che Gesù sarebbe venuto e venne in un vero corpo umano. (…)
L’apertura da un lato è la ferita con cui fu trafitto il costato del Crocifisso. Per essa entrano quelli che vengono a lui perché da lì sgorgano i sacramenti con cui sono iniziati i credenti. [Agostino d’Ippona]

Dio dice a Noè: Fa’ un’arca (Gen 6,14). E poi ancora: Entra nell’arca (Gen 7,1)!
Entrare nell’arca significa entrare nel corpo di Cristo. E vi entriamo attraverso il suo costato. Quel cuore aperto-trafitto che abbiamo contemplato nel precedente incontro essere il modello sul quale costruire il nostro corpo a sua arca e dimora.

* Faranno dunque un’arca di legno di acacia
Il legno impiegato per costruire l’arca di Noè era il cipresso. Non dobbiamo pensare all’impiego dei cipressi nei cimiteri come segno di lutto e di morte. In realtà il cipresso, chiamato anche “albero della vita” per la persistenza della sua chioma, presso molti popoli è considerato albero sacro, simbolo di immortalità e di risurrezione. Il suo legno è impiegato nella costruzione del luogo sacro.  Così anche nel cristianesimo, Origene ne fa un simbolo delle virtù spirituali perché esso ha il buonissimo profumo della santità.

In questo il cipresso di Noè ha molto in comune con l’acacia di Mosè.

Anche l’acacia, infatti, come il cipresso è simbolo di immortalità e risurrezione.

La corona di spine di Cristo – secondo una antica tradizione – era di legno di acacia.  Le spine dell’acacia splendono nella corona di spine come raggi luminosi del vero sole-Cristo. L’acacia quindi si ricollega al simbolismo della luce e del sole.

Il legno dell’acacia è infatti un legno duro a marcire. Chiamata anche “mimosa del deserto” ha una grande resistenza alla siccità, mantenendo verde la sua chioma. Da qui il simbolo della luce, del sole, della vita e della speranza nell’immortalità.

Spine e luce ci riportano immediatamente al primo incontro di Mosè con Dio sull’Oreb. Alla luce e al fuoco del roveto dove Dio rivela il suo Nome grande e impronunciabile. Roveto ardente e profezia del Figlio coronato di spine di luce sulla croce.

Di cosa ancora può essere figura il legno spinoso dell’acacia, ce ne parla sant’Antonio da Padova in un suo sermone:

(L’acacia) è un legno che non marcisce, e quanto più si brucia tanto più indurisce. Questo legno è figura dei pensieri, dei sentimenti del cuore, i quali devono avere tre qualità: devono essere come le spine, che pungono per il ricordo dei peccati; non devono mai marcire, cioè mai acconsentire alle cattive suggestioni; e quanto più vengono arsi dal fuoco delle tribolazioni, tanto più devono restare saldi nel loro proposito. Con questi legni si costruisce l’altare al Signore, nelle misure indicate. [Antonio di Padova]

* avrà due cubiti e mezzo di lunghezza, un cubito e mezzo di larghezza, un cubito e mezzo di altezza.
Un cubito è una antica misura che corrisponde a circa 45 cm. Ma qui ci interessa quel “mezzo” cubito che caratterizza ogni misura. Infatti, né in lunghezza, né in larghezza, né in altezza è raggiunta la misura intera: due cubiti e mezzo… un cubito e mezzo…
Sono dimensioni incomplete, “spezzate” perché – osserva Tzèmakh Tzèdek, terzo Rebbe di Lubavitch (XVII-XIX sec) – non si può godere della luce della Torah se prima non si “spezza” con le proprie cattive inclinazioni e abitudini. E il rabbi Natan Marcus Adler (1803-1890) osserva che chi studia la Torah deve sempre sentirsi come “spezzato”, nella continua consapevolezza di trovarsi a metà del cammino e non pensare mai di aver raggiunto la perfezione. Non possiamo mai conoscere la Torah in pienezza. Per quanto la studiamo ci mancherà sempre… quel “mezzo cubito”.

* La rivestirai d’oro puro: dentro e fuori la rivestirai e le farai intorno un bordo d’oro.
Chi studia la Torah – osserva Rabbenu Bekhayé (1260ca-1340) – se appare d’oro all’esterno, lo deve essere anche all’interno. Ossia: il carattere di chi entra spiritualmente nell’arca della Parola, e legge, medita, contempla e mette in pratica la Parola, deve essere lo specchio del suo animo.
Che non accada anche a noi quello che Gesù diceva dei farisei: sepolcri imbiancati. Che cioè sia solo esteriore il nostro “oro”.

* Fonderai per essa quattro anelli d’oro e li fisserai ai suoi quattro piedi: due anelli su di un lato e due anelli sull’altro. 

* Farai stanghe di legno di acacia e le rivestirai d’oro. Introdurrai le stanghe negli anelli sui due lati dell’arca per trasportare con esse l’arca. Le stanghe dovranno rimanere negli anelli dell’arca: non verranno tolte di lì.
L’arca dovrà contenere le tavole della testimonianza. Le prime istruzioni riguardano quindi la costruzione dell’arca in quanto tale e i suoi rivestimenti.
Ma l’arca dovrà essere trasportata. Dio nella sua Parola deve camminare con il suo popolo. Ecco allora le istruzioni per le stanghe e gli anelli che devono consentire il trasporto dell’arca.
I 4 incaricati del trasporto dovranno camminare senza mai volgere le spalle all’arca, procedendo quindi due di fronte agli altri due, la prima coppia camminando in avanti e la seconda all’indietro (cfr Rabbi Rambàm, 1135-1204).

Non voltando mai le spalle alla Parola, siamo “costretti” di fatto anche a non voltare mai le spalle a chi cammina con noi. E questo è molto bello: portare la Parola con fedeltà (senza mai voltarLe le spalle) significa guardare sempre il nostro fratello (non girargli mai le spalle).

Nel nostro ultimo incontro del Gruppo Esodo osservava l’amico Antonio che se qualcosa oggi si è smarrito, forse è perché non sappiamo più camminare. E Luis aggiunge che per guardare al mondo non dobbiamo voltare le spalle a Dio. Infatti, se guardi Dio contemporaneamente guardi in tutte le direzioni.

È questo – continua Gianantonio – l’impegno del nostro camminare a immagine e somiglianza di Dio. Dall’immagine alla somiglianza, secondo la nostra vocazione battesimale. Guardando l’arca infatti, e guardando così il fratello, contemporaneamente camminiamo evitando lo sguardo del nemico:

L’arca è l’anima fedele, che deve allontanare da sé lo sguardo della superbia, di cui è detto in Giobbe: “Tutte le cose alte disprezza” (Gb 41,25), e il ladro, così chiamato da “notte oscura” (lat. fur, ladro, e furva nox, notte oscura): il ladro che finge di essere santo, e che è chiamato: “il nemico che si aggira nelle tenebre” (Sal 90,6). Quest’arca è detta “dell’alleanza del Signore”, perché nel battesimo l’anima fedele ha stabilito con il Signore un’alleanza eterna, quella cioè di rinunciare al diavolo e alle sue suggestioni. [Antonio di Padova]

Così – insegna il Talmud – i trasportatori reggevano l’arca sulle spalle, ma in realtà era l’arca che li sollevava e li reggeva. Infatti non è il popolo che sostiene la Parola, ma la Parola che genera, regge e sostiene il popolo.
Questa osservazione del Talmud ci ricorda l’antifona ai primi Vespri della festa della Presentazione di Gesù al Tempio, il 2 febbraio.

Senex puerum portabat
Puer autem senex regebat.

Il vecchio portava il bambino,
e il bambino reggeva il vecchio.

La scorsa volta abbiamo contemplato l’icona del vecchio Simeone che, alla presentazione di Gesù al tempio, stringe il bambino tra le sue braccia (cf Lc 2,22-35). La festa della Presentazione di Gesù al tempio avviene a 40 giorni esatti dal Natale: Gesù, la Parola fatta carne, entra nella sua arca, il tempio!

Come il vecchio Simeone e come i portatori dell’arca accogliamo e portiamo sulle nostre spalle la Parola, memori del Suo insegnamento: prendete il mio giogo sopra di voi (…) Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero (Mt 11,28-30). È leggero perché è Lui che ci porta! e noi – come i portatori dell’arca – siamo sollevati e portati dal peso dolce e leggero della Parola, la Parola della croce.

Se tu volentieri porti la croce,
ella porterà te. [Della Imitazione di Cristo]

E divenuti anche noi arca ci scopriamo parte del corpo mistico di Cristo che è la Chiesa. La Chiesa è l’arca e i 4 anelli sono i quattro Vangeli – commenta Gregorio Magno. Le stanghe di acacia (legno immarcescibile) sono i maestri della fede, inviati ad annunciare il Vangelo con forza e perseveranza. Essi non annunciano niente di proprio, ma le loro parole sono inserite appunto dentro gli anelli della Parola e dovranno rimanere lì, stabilmente inseriti nel Vangelo che annunciano. Così da essere rivestiti d’oro, risplendere cioè per la luminosità della loro vita:

Che cosa è rappresentato dall’arca se non la santa Chiesa?
Si ordina poi che ad essa vengano aggiunti 4 anelli agli angoli, e ciò senza dubbio significa che per essa, per il fatto che si estende dilatandosi nelle quattro parti del mondo, è annunciata cinta dai 4 libri del Santo Evangelo. E si fanno stanghe di legno di acacia da infilarsi nei medesimi anelli per il trasporto, perché bisogna cercare maestri forti e perseveranti come legno che non imputridisce, i quali, sempre intenti allo studio dei libri sacri, annuncino l’unità della santa Chiesa portando l’arca come inseriti in quegli anelli (…) E le stanghe devono essere pure ricoperte d’oro, cioè i maestri che, mentre con i loro discorsi predicano agli altri, devono risplendere anche loro per la luminosità della vita. [Gregorio Magno]

Pensiamo: non solo siamo chiamati ad offrire il nostro contributo volontario, a costruire il nostro cuore come un’arca secondo il modello del Cuore di Cristo, cuore offerto, immolato, trafitto, aperto. Non solo siamo chiamati ad accogliere nell’arca del cuore la Parola… Non solo siamo chiamati a portarla facendoci da lei portare… ma dobbiamo restare sempre fissi dentro gli anelli dei quattro Evangeli.

Le stanghe dovranno rimanere negli anelli dell’arca:
non verranno tolte di lì. 

Rimanere negli anelli dell’arca!
Rimanete nel mio amore! – ci dice Gesù. E aggiunge che se osserveremo i suoi comandamenti, rimarremo nel suo amore. Rimanete nel mio amore, come le stanghe nell’arca, attaccati a i miei comandamenti:

Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore (Gv 15,9-10).

Il fatto che le stanghe siano sempre attaccate all’arca – osserva ancora Rav Hirsh (1808-1888) – ci mostra ancora che la Legge non è vincolata a nessun luogo particolare. Dovunque sarà Israele, sia per sua volontà, come per costrizione (pensiamo all’esilio), non dovrà temere perché le stanghe sono sempre attaccate alla legge. Dovunque saremo, la Parola sarà con noi.

Il Signore è il tuo custode,
il Signore è la tua ombra
e sta alla tua destra.
Di giorno non ti colpirà il sole,
né la luna di notte.
Il Signore ti custodirà da ogni male:
egli custodirà la tua vita.
Il Signore ti custodirà quando esci e quando entri,
da ora e per sempre. [dal Sal 120]

Rimaniamo allora… nel suo amore!
Gesù Parola fatta carne è con noi ovunque noi saremo.
Portiamo il peso di questa Parola, e la Parola porterà noi.

* Nell’arca collocherai la Testimonianza che io ti darò.
Ed eccoci a quest’ultimo versetto che è il cuore e il senso più profondo di tutto il racconto sull’arca: l’arca serve per custodire la Parola, che cammina con noi.
Come la culla di Betlemme il Verbo che si fa carne.
Come la croce del Calvario il cuore trafitto dello Sposo.
Come l’ostia sull’altare il corpo di Cristo.
Come il nostro cuore fatto culla e grotta, croce e cuore, e ostia…

E sentiamo allora come rivolte a noi le parole di Mosè a Giosuè:

Il Signore stesso cammina davanti a te. Egli sarà con te, non ti lascerà e non ti abbandonerà. Non temere e non perderti d’animo! [Dt 31,8]

L’arca (e la Parola di Dio nell’arca) accompagnerà e guiderà quindi Israele fino alla Terra promessa. Qui Salomone costruirà il tempio e, nel cuore del tempio, la tenda, il Santo dei Santi.
L’arca quindi sarà posta nel cuore del Santuario. Una volta entrati nella Terra promessa e costruito il tempio, il tempio stesso dovrà rappresentare il monte Sinai, e l’arca con le tavole della Testimonianza dovrà essere collocata nel cuore del tempio, il Santo dei Santi.

Eresse il sacrario nel tempio, nella parte più interna, per collocarvi l’arca dell’alleanza del Signore. [1 Re 6,19]

E nel nostro esodo costruiamo anche noi allora, nella parte più interna del nostro cuore, questo luogo dove custodire la Parola. Nella parte più interna!
Finché approderemo alla Città e al Tempio celeste.
Dal Sinai a Gerusalemme attraverso l’esodo del deserto.
Dall’angoscia per lo smarrimento dell’arca e la distruzione del Tempio all’accoglienza del Verbo fatto carne e del Tempio del suo corpo.
Abbiamo poi contemplato che anche questo tempio santo del corpo di Cristo è un cuore trafitto… Trafitto ma immolato, in piedi, che cammina con noi, che cammina in noi, nuova colonna di fuoco, il Risorto che ci dice Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28,20).
Dall’altare e croce del Calvario, attraverso il deserto e l’esodo della storia, fino al Tempio celeste, dimora eterna di Dio-con-noi.

Allora si aprì il tempio di Dio che è nel cielo e apparve nel tempio l’arca della sua alleanza. [Ap 11,19]

* L’arca rapita
Nel precedente incontro abbiamo contemplato come il Tempio di Gerusalemme nel cui cuore, il Santo dei Santi, era custodita l’arca con le tavole della testimonianza, è stato distrutto, e non verrà più ricostruito. Il popolo di Israele è in cammino verso il terzo tempio, il tempio senza fine del cielo.
Lo stesso corpo di Cristo, vero tempio del nostro esodo, è un corpo e tempio immolato nella morte di croce. Ma – e questa è la nostra fede – è risorto! È sceso agli inferi portando nel suo corpo e tempio tutta l’umanità di ieri, oggi e sempre, e ascendendo al cielo già ora inaugura il tempio senza fine. Nel Suo Spirito e nei sacramenti ci dona la Sua presenza qui, oggi, nel nostro esodo terreno. E anche a noi può capitare che… smarriamo l’arca, che i Filistei ce la portino via, già come fecero con Israele.

Nel primo libro dei Re, (…) si racconta che l’arca dell’alleanza del Signore degli eserciti, assiso sopra i cherubini, arrivò negli accampamenti e fu catturata dai filistei (cf. 1Re 4,4-11). L’arca è figura dell’uomo contemplativo, nel quale c’è la manna della soavità, le tavole della duplice legge dell’amore e la verga della correzione. Il contemplativo è chiamato “arca dell’alleanza del Signore”; con il Signore infatti ha concluso il patto di servirlo in perpetuo; e il Signore è assiso sui cherubini (Sal 79,2), nome che s’interpreta “pienezza della scienza”: è assiso cioè su quell’anima che è ricolma di amore. Infatti “la pienezza della legge è l’amore” (Rm 13,10). [Antonio di Padova]

L’arca a un certo momento della storia di Israele quindi scompare, e non sarà più ricostruita (Gr 3,14ss!). Oggi il tempio di pietra è distrutto, l’arca e le tavole di pietra sono scomparse, e – ci ricorda Luis – anche il Nome santo di Jhwh è andato perduto da quando è cessato il culto del tempio.

Il Nome santo rivelato da Dio a Mosè nel fuoco del roveto che veniva pronunciato una sola volta all’anno dal sommo sacerdote nel Santo dei Santi il giorno di Yom Kippur, il giorno dell’espiazione.

E qui la nostra meditazione si apre al tema del propiziatorio, in ebraico Kapporet, dalla stessa radice di Kippur. Perché il Kapporet è sì il coperchio dell’arca, ma la sua funzione va ben oltre quella di un semplice coperchio… (lo mediteremo nel prossimo incontro).

Oggi ci fermiamo qui.
Chiediamo al Signore che non permetta mai che smarriamo quest’arca! E che restiamo fissi, come le stanghe dell’arca, negli anelli della Parola, la cui pienezza è l’Amore.
In cammino, nella coscienza di non avere qui, nel nostro esodo terreno, una tenda stabile.
Nessun tempio e nessuna parola di pietra.
Ciò che abbiamo è solo (e non è poco!) sacramento del tempio verso il quale guardiamo: il corpo di Cristo che ci attende già qui ora nella grazia e in pienezza nei cieli.


Nello scorso incontro ci siamo lasciati con un impegno: tenere stretto al petto il vangelo o il breviario.
Ora vogliamo proporci di farlo ancora: pensiamo di esservi attaccati come le stanghe nell’arca, e sentiamo sempre più forte che mentre lo portiamo in realtà è Lui che porta noi, e sentiamo consolazione perché Egli è sempre con noi, ovunque siamo, anche nei momenti più bui.
Ci facciamo aiutare infine con questa contemplazione che ha condiviso con noi il nostro amico Matteo:

Sono ancora a metà della strada,
manca sempre
l’ultimo pezzo di strada:
conduce alla Terra
della tua promessa.

Mi chiami a diventare
navigante sulle acque,
passante sul deserto,
custode del Verbo
nel tempo dell’esilio.

Signore,
non scioglierò i miei lacci
se non in Te,
non pianterò il puntello
se non in Te.

A esempio di Mosè
monteremo un’arca…
un cuore costruiremo
ad esempio di Cristo!
Qui culleremo la tua Parola.

Signore,
non saremo ristorati
se non in Te,
non saremo saziati
se non in Te.                      [Matteo Curto]

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