Riflessioni sul canto nella liturgia
Gino Stefani
Proponiamo un articolo di Gino Stefani pubblicato a puntate nel 1984 nei numeri 50, 51, 52, 53 di “Musica e Assemblea” all’epoca edito dall’Editrice Queriniana di Brescia. Non solo una riflessione, anche provocazione sulla voce e il canto, nella liturgia.
Cantare: tra il dire e il fare. Provate un po’ a pensare in quanti modi lo si dice.
Canto perché ho l’anima in pena («canta che ti passa»); perché ho la rabbia in corpo («I can’t get no satisfaction», Rolling Stones); perché amo («Amore, amor…»).
Cantare per stare svegli; per farsi compagnia, e magari anche coraggio.
«Ogni uccello e ogni stagione hanno la loro canzone» (proverbio olandese).
Dirlo in musica, resta più impresso; dirlo in musica, è meno impegnativo. «Chi bene canta, prega due volte» (antico detto ecclesiastico); «Sono solo canzonette» (E. Bennato). Inni rivoluzionari, lotta cantata; «Non ho mai detto che a canzoni / si fan rivoluzioni» (Guccini).
Canto, canzone, canzonare.
Canto, incanto, incantamento, incantesimo.
«Canto / quel motivetto che mi piace tanto». «Tasto pe’ ccantà». Eccetera. Continuate voi la raccolta. Intanto facciamo il punto: cantare è un dire, che è un fare. Ma anche un non fare. Ed è un fare, che è un dire. Ma anche un non dire. Giochi di parole? Niente affatto: è l’ambiguità del cantare, la polivalenza dei canti, il labirinto della canzone. Mettiamolo in schema:

Provate a trovare un esempio concreto per ogni percorso: una canzone, un canto liturgico, un cantautore, una situazione politica, ecc.
E, per immaginare cosa succede quando si sbaglia percorso, eccovi una storia vera, dell’epoca degli alberi degli zoccoli. In un paese mediterraneo, di cui non ricordo il nome, una ragazza accusò davanti al giudice un giovanotto di averla corteggiata, pubblicamente impegnata e poi abbandonata e, quindi, disonorata; al che lui, per tutta difesa: «Io?! Canzòne, fu!». L’atto incriminato era, infatti, una serenata: corteggiar cantando.
E nelle nostre serenate al buon Dio, chi può dire che cosa succede, precisamente?

Le combinazioni segrete
Che cosa fa realmente uno che canta nella liturgia? Proviamo a indagare sui meccanismi segreti di quel labirinto che è il canto.
Il canto è l’incontro, o la sintesi, di tre dimensioni: la voce, la parola, la musica. Ora, ognuna di queste componenti ha una sua autonomia di strutture, di funzionamenti, di progetti. La voce è qualcosa di molto personale, l’immagine sonora di una persona; la parola è soprattutto un mezzo per comunicare con gli altri; la musica poi è tante cose: gioco, espressione, costruzione di oggetti sonori, rappresentazione, ecc.
Messe insieme, queste tre dimensioni un po’ si rinforzano, un po’ si neutralizzano, sempre si trasformano a vicenda; e il risultato non è mai una somma e neanche un prodotto aritmetico, controllabile.
Prendiamo un esempio: il canto. «Io non sono degno…» Chi è questo «io?» Se leggo le parole sul libretto, è il soggetto logico della frase; eventualmente è l’autore del testo (ma non si può dimostrarlo); se me ne approprio con fede, sono io che leggo. Nella messa, l’«io» è il soggetto liturgico, il «fedele» che io rappresento e sono; l’atto, è una confessione. Se poi quelle parole le canto, quell’«io» si moltiplica e si frantuma come in un caleidoscopio, dove i soggetti precedenti (logico, storico, simbolico-rituale) danzano con l’io lirico della poesia, con l’homo ludens della musica…
Questi soggetti, queste identità possono sì, teoricamente, disporsi su una stessa traiettoria, che va da un nucleo potenziale a una realizzazione concreta; ma la pratica è molto più complessa e assai meno lineare.
Se le parole di quel canto contengono un significato di confessione e di offerta, la poesia le trasforma con i suoi giochi di suono e di ritmo, e il senso e l’atto cambiano. E cambiano poi ancora per la musica, con quelle curiose deformazioni che essa impone alla recitazione del testo (« …maaasetulovuooiiii…») e quel costante e sommesso incitamento alla danza, a un quasi languido valzer lento.
Quanti percorsi possibili, e spesso inconsci, nel canto anche più semplice e sincero! Quanta ricchezza di senso, ma anche quanta ambiguità! Ora, nella celebrazione, questa ambiguità si riduce da sé, o bisogna ridurla, e quanto, e come?

La soluzione convergente
Qual è il canto migliore? Quello che realizza meglio la sintesi voce-parola-musica. Fabbricare buoni testi o musiche, e cantare bene, non è tanto difficile; basta il mestiere. Una bella canzone invece è un caso o un’invenzione felice. Perché questo? Perché, come abbiamo visto, la combinatoria delle tre dimensioni (voce-parola-musica) è talmente complessa che non si domina razionalmente, analiticamente.
Un canto liturgico ben riuscito è quello in cui voce, parola, musica convergono a ‘dire’ le stesse cose, a ‘fare’ gli stessi atti (proclamare, o meditare, o inneggiare, e così via), con uno stile coerente.
Di questa convergenza i primi responsabili possono essere gli autori del testo e della musica. Ma molto può essere fatto anche dagli esecutori/arrangiatori, nel realizzare il “sound” vocale-strumentale adatto al pezzo e alla circostanza. Per questo sono utili le indicazioni tecniche che si trovano nelle presentazioni dei canti in MeA [ndr: “Musica e Assemblea”, il periodico da cui è tratto l’articolo di Gino Stefani]; utili, se non altro, come stimoli ad approfondire i rapporti parola-musica di un dato canto. E tanto meglio, se ci si abitua a questa analisi anche con le canzoni, il rock, la lirica classica.
Ma anche gli animatori o guide dell’assemblea hanno un ruolo importante nel realizzare la sintesi felice del canto, scegliendo qui e là nel testo, nella musica, nel sound, degli elementi che si sintonizzano bene tra loro e con la situazione del rito e dell’assemblea, e attivando su questa sintesi l’attenzione dei fedeli.
Questo modo di gestire l’ambiguità del canto, orientando tutto (si fa per dire) il suo potenziale di senso nella direzione voluta, è certamente ideale, e a questo ideale si dovrebbe tendere. In pratica non è sempre possibile, anzi di solito non lo è. Di solito prevalgono le soluzioni unilaterali, che dovremmo quindi assumere consapevolmente.
Canto a una dimensione?
Sarebbe inutile lottare per conquistare posizioni avanzate, se poi non ci si dà da fare per mantenerle. Quest’ultimo punto è quindi dedicato alla difesa del canto come esperienza densa, a molte dimensioni, reagendo alle tentazioni di appiattimento.
Nella liturgia ci sono, indubbiamente, situazioni in cui il progetto rituale richiede che nel canto prevalga una certa dimensione. Per esempio, nella proclamazione (letture, salmo responsoriale della messa) la parola deve essere in primo piano; nell’acclamazione (Alleluia, Amen) è la voce a farsi avanti; in un canto processionale può essere soprattutto la struttura musicale (ad esempio il ritmo) quella che sostiene il movimento e quindi attira l’attenzione. Musicisti, cantori e animatori dovrebbero essere consapevoli di queste funzioni speciali del canto, sia per non diluirle nel generico, sia per non perdere del tutto il senso e il gusto del canto.
Ma nelle nostre celebrazioni ci sono anche, e spesso, situazioni devianti, in cui la prevalenza di una componente del canto è ingiustificata e negativa. Quanto alla voce, può essere uno stile troppo personale di qualche solista, o la partecipazione troppo emergente di qualche corista; le assemblee, invece, sembrano poco dedite ai… piaceri orali. Quanto alla musica, non sono rari i pezzi in cui la tecnica, lo stile, la forma o il genere sono tanto caratterizzati e marcati (anche senza arrivare allo hard rock o al valzer viennese) da monopolizzare l’attenzione e così far passare senz’altro in secondo piano tutto il resto.
Lo stesso si può dire, ovviamente, degli arrangiamenti e del modo di esecuzione.
Ma è soprattutto la parola quella che prevarica nel nostro canto liturgico. Già il verbocentrismo è una devianza di antica data nella liturgia latina, e la riforma degli anni ‘6o non ha fatto che accentuarla. Sembra impossibile che si accettino tranquillamente situazioni culturalmente (oltre che ritualmente) strambe come ‘recitare’ un ‘canto’ di entrata o di comunione; che sarebbe come leggere in pubblico il testo dell’inno di Mameli («Fratelli d’Italia…») o di una canzone di Bennato, invece di cantarlo o ascoltarlo cantato.
Ma lo stesso verbocentrismo si manifesta anche nell’abitudine corrente di presentare e introdurre i canti parlando sempre solo dei testi. Certo, parlare della voce e della musica a un’assemblea è più difficile; ed è anche vero che molte volte bisogna che il testo faccia dimenticare una certa musica. Ma l’idea che il canto, ossia il rito, stia nel testo, è un errore fin troppo frequente nelle nostre chiese. Bisogna quindi reagire.
L’eccesso di parola è un difetto dei pastori (oltre che della nostra cultura ‘umanistica’ tradizionale); gli eccessi di voce e di musica lo sono dei musicisti e dei cantori. Esercizi ed esibizione, magari inconsapevole, di potere. Il canto della, e nella, assemblea ne risente. La competenza nel canto liturgico è una specie di saggezza. Non bastano singole tecniche, sia pure sommate; occorre un progetto globale e un comportamento coerente.
Una sintesi musica-liturgia-cultura.