La “Missa Pie Jesu Domine” di Giuseppe Liberto

Claudio Magni


La prefazione all’edizione a stampa della Missa Pie Jesu Domine si apre esattamente con le stesse parole del numero 1 dei Praenotanda de Il rito delle Esequie del 1974, ripreso in modo identico anche nel nuovo rito attualmente in vigore:

“La liturgia cristiana dei funerali è una celebrazione del mistero pasquale di Cristo Signore”[1].

Silvano Maggiani, autore della prefazione, ha voluto sicuramente ribadire il connubio strettissimo tra quello che è lo spirito della celebrazione cristiana, di ogni celebrazione cristiana e quindi anche del rito esequiale, con la stella polare che ha sempre guidato l’operato di mons. Giuseppe Liberto nel suo servizio di presbitero, compositore e direttore di coro, dagli esordi sino alla guida della Cappella Musicale Pontificia “Sistina”, la celebrazione come “fonte e culmine della vita cristiana”[2]. Non a caso nel suo curriculum il maestro Liberto esordisce sempre con l’espressione “presbitero della Chiesa” mettendo al secondo posto tutto quanto ha avuto la possibilità di fare come musicista al servizio della Chiesa stessa e, sempre come dice lui, “al servizio dell’attuazione di quanto indicato nel Concilio Vaticano II”.

È questo ultimo aspetto, assieme alla comune attività musicale, che mi ha permesso di poter collaborare con il maestro negli ultimi 20 anni, nello specifico il fatto che nel luogo nel quale svolgo uno dei miei ministeri musicali sia nato il promotore del Concilio, Giovanni XXIII, il paese (Santuario) di Sotto il monte Giovanni XXIII, in provincia di Bergamo.

La “Missa Pie Jesu Domine”

È partendo da questa premessa che ci avviciniamo alla composizione del maestro Liberto. La Missa Pie Jesu Domine porta come sottotitolo “In exsequiis Ioannis Pauli PP. II” ed quella che è stata eseguita durante i funerali di Giovanni Paolo II in Vaticano.

Questo la rende sicuramente una Messa, e con questo termine faccio riferimento alla parte musicale e musicotestuale della celebrazione, unica e di conseguenza “non replicabile”, come praticamente tutte le celebrazioni pensate per un luogo unico al mondo come è la Basilica di San Pietro, con un celebrante, un’assemblea, una location, una partecipazione dall’esterno che evidentemente non sono quelle di una chiesa parrocchiale, ma neppure quelle di una Basilica o di una Cattedrale. Se a questo aggiungiamo che il momento era ancora più particolare, la morte e i funerali di un Pontefice che ha rivoluzionato la storia e che è stato sul soglio petrino dal 1978 al 2005, possiamo capire come tutto, parte musicale compresa, dovesse essere “particolare e unico” per quella mattinata e per i momenti che precedettero la celebrazione funebre.

Questo non significa che però noi non si possa conoscere questa Messa per crescere come musicisti e prendere spunto da questa partitura per ragionare come la parte musicale sia anche in questo caso “parte necessaria e integrante della Liturgia solenne”[3] e soprattutto come si sia realizzato quanto riportato di seguito: “Perciò la Musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica…tutte le forme della vera arte…dotata delle qualità necessarie”[4]. Esattamente quanto ci ricorda lo stesso Giovanni Paolo II nel Chirografo del 2003 per il centenario del Motu proprio “Tra le sollecitudini” sulla musica sacra del 3 dicembre 2003: non si rifà al canto gregoriano e alla polifonia palestriniana per chiederci di scrivere come si faceva allora, ma per ricordarci quanto in queste due situazioni il grado di compenetrazione e funzionalità tra musica e liturgia fosse massimo, esattamente come dovrebbe accadere per quella musica che il Liberto definisce “Santa” oppure “Sacro-Santa”, andando oltre i concetti di religiosa, sacra e liturgica (che restano comunque punti di riferimento oggettivi).

Un altro aspetto importante è che la struttura esequiale e il modello per la messa in opera dei vari momenti celebrativi[5] è stato verificato e realizzato per la prima volta proprio in quella celebrazione dei funerali di Giovanni Paolo II, essendo lo stesso Pontefice artefice del perfezionamento dei riti utilizzati in precedenza per Paolo VI e Giovanni Paolo I, per cui la parte musicale è stata concepita all’interno di un cantiere non ancora chiuso.

La Missa consta di 8 parti, tutte costruite in un fruttuoso rapporto tra nova et vetera, tra parti del repertorio gregoriano proprio della messa gregoriana “Pro defunctis”[6] per quanto riguarda il proprio e della messa XVIII “In feriis adventus ed quadragesimae et ad missam pro defunctis”[7]. ed elaborazioni polifoniche contemporanee, oltre che in un altrettanto continuo dialogo tra parti destinate al solo, al coro e all’assemblea. Solo nell’offertorio non è presente alcuna melodia gregoriana.

La genesi la troviamo attorno all’anno 2000, al termine del Grande Giubileo. Alcuni schizzi, progetti di melodie, appunti sulla costruzione del brano erano già sul tavolo dell’autore da tempo, come capita a tutti i musicisti che non vogliono che il tempo si porti via un’illuminazione melodica, un passaggio ritmico ed allora se lo appuntano su un foglio. Addirittura alcuni di questi (il tema del “De profundis”) erano già stati inseriti e verificati nella loro risposta musicale nella composizione di un concerto per organo mezzosoprano e orchestra intitolato “In attesa dell’aurora” che, stranissima coincidenza, venne eseguito nella Cattedrale di Monreale, patria musicale di mons. Liberto, la sera stessa della morte di sua madre.

Lo schema delle parti musicate è il seguente, al quale si aggiungono le parti che vengono eseguite prima della celebrazione e le parte “tradizionali” non elaborate da Liberto[8]:

  1. Ad introitum (Requiem aeternam…)
  2. Kyrie
  3. Alleluia – Haec est
  4. Ad offertorium (Tu illuminas lucernam meam, Domine…)
  5. Sanctus
  6. Agnus Dei
  7. Ad comunionem (Lux aeternam…)
  8. Credo quod Redemptor

Il linguaggio polifonico è stato mantenuto accessibile e adatto alla gente di tutto il mondo, lontano da sperimentalismi e cromatismi esagerati, pur all’interno di un modo di comunicare che fa risaltare e riconoscere la scrittura di mons. Liberto rispetto ad altre ed è in continuità con le sue produzioni precedenti e seguenti anche più ardite armonicamente e cromaticamente. La volontà di mettere in rilievo ogni parola del testo, il suo significato più profondo, la sua contestualizzazione all’interno del rito rinnovato, senza creare una messa lugubre, ma facendo pregustare la futura resurrezione definitiva, secondo lo spirito dell’Ordo, è stata una delle altre attenzioni che l’autore ha tenuto in considerazione nel costruire tutta l’opera.

Un commento particolare merita il fatto che il titolo non sia genericamente Messa da Requiem. Proprio per non ricordare la parte più negativa della morte, per la Missa Pie Jesu Domine[9], la denominazione è stata presa dalla sequenza del Dies irae (del rito preconciliare) nella quale a queste parole seguono “dona eis requiem” , mettendo in evidenza e indirizzando lo sguardo su Cristo che ci accoglie nel momento del trapasso e ci apre le porte alla vita futura.

Altri passi di questa sequenza scopriremo poi che sono stati utilizzati all’interno di altre parti della messa.

Conscio del fatto che quanto segue presuppone, per una migliore comprensione, il possesso della partitura della Missa, non riportabile per evidenti questioni di spazio e di diritti, pongo l’attenzione su alcuni passaggi significativi della composizione.

Ad introitum

Mons. Liberto, chiacchierando di questo brano, ricorda negativamente il cupo brontolio ed il pesante e continuo ritorno sulla stessa corda tipico della cantillazione gregoriana dei versetti del Requiem. Si trattava quindi di cercare un’alternativa che potesse dare movimento e vigore all’incipit della prima stanza. Varie sarebbero potute essere le possibilità. L’autore predilesse uno “spiazzante” unisono corale giocato sulle corde cruciali di Fa minore (dominante del tono d’impianto), sfruttando il salto di quinta ascendente e discendente a guisa di squillo di tromba, ampliando l’intervallo che si muoveva nelle stesse direzioni della cantillazione gregoriana e “spaccando”, come dice l’autore stesso “sul disaccordo” DO, SOLb SIb, MIb in corrispondenza della parola “Deus”, non casuale, ma voluto per ricreare e riportate in maniera esplosiva l’attenzione sulla prima situazione di polifonia di tutta la Missa. Il brano – nonostante l’armatura in chiave faccia propendere per un’impostazione sulla nota FA – si apre nella tonalità di SIb minore e si conclude in Sib maggiore, allo scopo di mantenere il discorso musicale in sospensione, l’autore sfrutta l’artificio della traslazione dell’intero incipit di una quinta verso l’acuto. La seconda stanza polifonica (“Qui audis”), che segue la ripetizione dell’antifona gregoriana, è concepito, fino al 1° tempo di battuta 46, utilizzando (con i dovuti distinguo applicati e derivanti dalla variabile temporale dei 500 anni passati nel frattempo) le tecniche dei grandi compositori del 1500. Di particolare interesse risulta essere la sezione conclusiva: l’autore parte dalla riproposizione di un accordo di particolare forza espressiva, da esso scaturisce la bella clausola che, in maniera inaspettata, porta il brano alla conclusione in perfetto modo dorico, con cadenza plagale. La terza stanza (il cui testo inizia con “Etsi praevaluerunt”) è un numero breve ma di grande effetto, improntato ad ingenerare un clima di grande, ieratica severità dovuta anzitutto alla scelta del colore vocale: sole voci maschili con tenori e bassi “divisi”, omaggio alla grande tradizione vocale della Cappella Musicale Pontificia “Sistina”. La sesta stanza, di lunghezza limitata, introduce nuovi elementi di analisi. Innanzitutto apre con un incipit spiazzante dei soli soprani, con ripresa dell’intervallo che caratterizzava il numero precedente (cioè la quarta diminuita).

Kyrie

Analizzando il Kyrie, Liberto ha ricordato che era stato uno dei principali punti di discussione all’interno delle riunioni per la gestione della liturgia di Giovanni Paolo II. La discussione verteva soprattutto sulla necessità di trovare una forma di alternanza che non escludesse nessuno e che non fosse particolarmente lungo. La decisione dell’autore fu quella di incastrare in modo “esagerato” il testo del Kyrie con quello di alcuni passaggi della sequenza Dies irae (dalla quale è stato preso anche il titolo della Missa), facendo in modo che il risultato finale portasse avanti in modo evidente il messaggio che “è Cristo che lo sta accogliendo e che accoglierà tutti noi”. Trasformando i versetti in invocazioni, utilizzando la parte gregoriana sempre della Missa pro Defunctis, da tutti conosciuta, e completando il tutto con un contrappunto sobrio, conciso, originale ha così creato un brano estremamente incisivo senza perderne l’aspetto litanico ed invocativo.

Il risultato testuale risulta essere:

Kyrie, qui Mariam Absolvisti, eleison…
Christi, qui latronem esaudisti, eleison…
Kyrie, qui mihi quoque spem dedisti, eleison.

Alleluia

La melodia scelta per l’acclamazione che precede il Vangelo, per almeno due motivi non poteva non essere quella comunemente definita “pasquale”. Innanzitutto la celebrazione della cerimonia esequiale è avvenuta nel periodo, liturgicamente parlando, pasquale. In seconda battuta risulta essere ancora più evidente, da questo particolare, il carattere pasquale della morte come preparazione alla resurrezione eterna.

L’autore compone solo il versetto. Per rendere possibile la partecipazione attiva dell’assemblea, Liberto rinuncia quindi alla composizione dell’Alleluia (e anche alla realizzazione di qualsiasi “coda polifonica” al termine di esso) e utilizza, per le motivazioni di ordine teologico e pratico sopra indicate, l’Alleluia “O filii et filiae”.

Il versetto si apre con un gesto musicale netto, scultoreo, che potrebbe benissimo essere letto nella volontà di rendere ancora più decisa, immodificabile ed eterna in un certo senso la “volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna”[10], che costituisce la “prima idea” e che si trova proprio in corrispondenza del “questa è”, estremamente decise e, in quanto dette da Dio, inoppugnabili. Il tempo ternario, interpretato in modo particolarmente solenne pur nella sua insita dinamicità, pedale di tonica, unisono dei tenori, “assordante” nella sua marcata proposta, e risposta del coro a ripieno è certezza di scorrevolezza e contemporaneamente di solennità, oltre ad avere rimandi di carattere teologico legate al discorso trinitario.

Ad offertorium

La scelta del testo del salmo 18, che l’OERP[11] lascia libera non fornendo alcuna indicazione in merito, come base su cui costruire l’offertorio, è stata voluta e cercata perché avrebbe portato alla composizione ed alla celebrazione in generale un chiaro riferimento alla luce pasquale.

Anche in questo è evidente la cura e la preoccupazione dell’autore riguardo alla possibilità per l’assemblea di poter partecipare attivamente al canto. Infatti è prevista un’antifona, il cui testo è sostanzialmente quello di uno dei lucernari dei Vespri ambrosiani, testo quanto mai suggestivo (e per la verità il più usato ancor oggi). L’antifona è composta con grande attenzione alla semplicità ed è scritta in maniera tale che sia sufficientemente caratterizzata nel suo metodizzare da poter essere immediatamente ritenuta a memoria dall’assemblea.

Sanctus

Gestito con la struttura dell’alternatim vengono presentate stanze polifoniche intercalate o preparate dal Sanctus gregoriano (o meglio ambrosiano inglobato nel gregoriano di cui si era già parlato in precedenza con riferimento alla scelta delle parti gregoriane).

L’autore utilizza la melodia gregoriana non lasciandosi condizionare dalla consueta tripartizione che caratterizza il primo intervento, facendo così in modo di non spezzettare troppo né il movimento melodico e neppure la struttura generale del pezzo. Affida quindi tutto il testo di risposta alla Schola e all’assemblea fino alla parola “sabaoth”. Questo tipo di scelta contraddistingue la scrittura dell’autore anche della prima parte dei “Gloria”, dove preferisce non staccare e non diversificare la parte di testo “laudamus te, benedicimus te, glorificamus te” essendo composto da frasi troppo brevi ed estremamente legate tra di loro dal punto di vista testuale. Ritiene quindi necessario che anche la realizzazione musicale sia unitaria e proposta da un solo soggetto (o coro o assemblea).[12]

La scelta dell’autore è quindi quella di creare un brano estremamente conciso come si conviene ad un’acclamazione, grazie all’espediente sopra citato e ad una polifonia che si potrebbe definire “sillabica” o “quasi sillabica” con poche concessioni, quasi tutte nelle chiuse, alla vocalizzazione del testo.

Una ulteriore scelta particolare è data nella gestione degli “Osanna”, inserendo il solo (battute 10 e 11) con il testo del “benedictus”, volendo specificare che l’ “Osanna” è per il “Benedictus” e non per il “tre volte santo”. Utilizza quindi le quattro ripetizioni dell’ “Osanna” per aprire e chiudere prima l’antico testamento con il testo tratto da Isaia e poi il nuovo testamento con l’approssimarsi del “Benedictus”.

L’ultima reiterazione che comporta un rallentando finale, ma che, soprattutto, è caratterizzata dall’indicazione dinamica “pianissimo” e che poco si confà con la chiusa solita dei “Sanctus” postconciliari in “forte” o “fortissimo”, è una ulteriore indicazione delle scelte precise dell’autore di fronte alla scrittura. La visione è quella di un etereo trasporto verso Dio, verso una visione celeste di quanto sta avvenendo in terra, con un approccio leggermente diverso dal puro concetto di acclamazione che comunque è presente nella prima parte.

Anche da questi particolari si può intravedere o confermare a seconda dei punti di vista il livello alto di approccio alla musica liturgica di Liberto, mai appiattito sulla prassi ricorrente e sempre alla ricerca di nuove soluzioni per meglio esporre il proprio pensiero musicale.

Agnus Dei

Anche in questo caso ci si trova di fronte ad un gregoriano connotato da un’essenzialità che rimanda alla cantillazione.

Scopo dell’autore è quello di non snaturare la litania che strutturalmente sorregge questo testo e che caratterizza questa parte della celebrazione liturgica. La scelta di una già intravista “francescana”, ma soprattutto funzionale, povertà musicale, è evidente nell’incipit e poi nella gestione complessiva del brano.[13] Liberto utilizza l’apparato polifonico solamente nella terza ripetizione e con il solo scopo di preparare strutturalmente la coda polifonica (a ricordo del dono escatologico della pace) al termine dell’ultima risposta dell’assemblea, ma sempre conservando il movimento melodico al soprano della melodia iniziale.

Un ulteriore breve appunto formale: anche in questo caso l’autore non vuole dar luogo ad una composizione “a singhiozzo” ma desidera un impianto unitario. Infatti, rinunciando alla possibilità di più immediata concezione (ad esempio “Agnus Dei” in canto gregoriano / “miserere” in polifonia) che enfatizzerebbe la frammentazione insita nell’alternatim, opta per una soluzione coerente e fluida: La schola intona “Agnus Dei” in gregoriano e l’assemblea risponde “miserere”, sempre in gregoriano. Prosegue poi in polifonia, intravvedendo la possibilità di far prendere maggiormente quota al discorso musicale che viene solo momentaneamente interrotto dal “dona nobis pacem” gregoriano. Questa breve apposizione però non rompe il divenire del brano, che prosegue in polifonia.

Ad communionem

Non poteva mancare la meravigliosa antifona Lux aeterna dopo quanto esposto nei numeri precedenti in fatto di “luce e vita eterna, visione pasquale delle esequie”, e soprattutto non poteva non essere presente il salmo 129 (130) De profundis con il suo immenso e splendido messaggio di speranza nella vita eterna e futura. È chiaro che la visione è aurorale, decisamente indirizzata verso la nuova vita che nasce e non come chiusa, come marcia funebre, del breve momento di passaggio che è stata per il defunto la vita terrena.

Mi permetto di riportare per intero il commento dello stesso Liberto al salmo 129 (130):

Il “De profundis” è uno dei salmi più pregiati, forse per il clima d’attesa, di fiducia e di speranza che lo pervade. Il grido d’iinvocazione che sgorga dal profondo dell’essere e dell’esistere dell’uomo si trasforma in abbandono sereno alla misericordia divina.

La preghiera è efficace quando alla profondità del cuore proteso verso l’Amore ineffabile.

Il “De profundis” è canto d’Avvento che contempla la venuta di Cristo, Verbo fatto Carne, che nell’incontro con l’uomo si incarna per condividere e redimere il “profondo” abisso della nostra fragilità e del nostro peccato.

S. Agostino, oltre allo splendido e appassionato commento che fa del Salmo, cita in forma autobiografica i primi versetti nelle sue Confessioni: “Ma per chi vado narrando tali cose? Non certo per te, mio Dio; le rinnovo davanti a te per il genere umano, il mio, sia pur piccolissima la parte di esso che avrà per le mani questo mio libro. E con quale scopo? Perché da me e da chiunque mi legga si rifletta da quali profondità bisogna innalzare a te il nostro grido”.[14]

Il grido di speranza che erompe dal cuore dell’uomo e va verso Dio “ricco di misericordia e di perdono”, elimina l’angoscia che il peccato produce nel cuore pentito.

Soltanto la profonda coscienza del peccato illuminata dall’amore può far vibrare la profondità del cuore dell’uomo che attende perdono, grazia e misericordia. Questa supplica penitenziale e individuale è inserita nella collezione dei “salmi delle ascensioni” proprio per preparare i pellegrini che vanno verso Gerusalemme a riconoscersi e a chiedere perdono “col cuore contrito e umiliato”.

Il salmo diventa così il canto dell’uomo pellegrino che si avvia di giorno in giorno verso la Gerusalemme celeste. Il cammino è grido orante, attesa ardente, speranza paziente e serena redenzione cosmica.

Al grido della voce che sale dal profondo della propria miseria risponde, in contrappunto d’amore, l’ascolto di Dio che è perdono e redenzione: la sua misericordia è più grande di ogni nostro peccato.

L’incarnazione di Dio nell’abisso dell’uomo è innalzamento dell’uomo nell’immensità di Dio.

Il salmista, pregando con i Verbi della speranza e dell’attesa, anima il suo grido con l’immagine luminosa dell’aspettare, vegliando, l’aurora. Il suo sguardo implorante è rivolto infatti verso l’alto ed è orientato verso la sorgente luminosa dell’alba.

L’intero brano, decisamente esteso, è costruito basandosi sul Communio della Missa pro defunctis gregoriana. L’antifona in VIII modo è, infatti, come in tutti gli altri numeri simili, ripetuta al termine di ogni affresco corale.

Una iniziale considerazione: l’autore, come già detto, zelante nell’assicurare la possibilità del canto assembleare, pone sempre un responsum ad intercalare le parti corali, a volte creandolo dal nulla (come per l’offertorium) altre volte utilizzando parti in gregoriano. Quando per vari motivi opta per questa seconda soluzione, opera la scelta di non proporre alcun accompagnamento organistico. Potrebbe essere visto un contrasto tra questo riguardo, quasi da “purista”, e una scrittura moderna delle antifone medesime (mensurale e nemmeno connotata da un qualsiasi aggettivo che rimandi ad una libertà ritmica di esecuzione, almeno maggiore da quella suggerita dalle durate precise e aritmetiche di semiminime e crome, anche se l’attenzione al fraseggiare del testo in quanto tale resta una delle premesse su cui è basata tutta la musica di Liberto). La (presunta) dicotomia può essere spiegata dalle evidenti priorità che l’autore si è posto: tra la difficoltà per un’assemblea di cantare liberamente, con il “ritmo assoluto” del gregoriano, e la maggiore facilità di approccio garantita da durate aritmetiche, privilegia la seconda. Invece tra il supporto organistico – che agevola il canto comunitario, ma “chiude” violentemente la modalità incanalando i molteplici colori evocati dalla sola monodia in un’unica soluzione – e la volontà di non definire la cantilena ecclesiastica con un’armonizzazione comunque limitante e vessante, privilegia quest’ultima possibilità. C’è anche nell’autore, forse, la volontà di lasciare al direttore dell’esecuzione la scelta ultima: se questi dovesse ritenere irrinunciabile un sostegno strumentale, può sempre prodursi in una armonizzazione personale o, magari, improvvisata dall’organista.

Credo quod Redemptor

Pagina dal grande effetto corale, in cui – dal punto di vista delle scelte vocali – scorgiamo subito ampi contrasti: dall’inizio contraddistinto da una totale asciuttezza (soli soprani all’unisono) al plenum con voci maschili interamente divise, dalla presenza dell’assemblea nella parte finale di un testo che dovrebbe essere un tutt’uno con la parte corale precedente e che viene invece spezzato per favorire l’interazione ed il connubio tra schola e assemblea attraverso l’applicazione musicale della struttura del responsorio, ai versetti affidati al solo.

Considerazioni finali

La brevità di alcuni brani (il Sanctus come pure il Kyrie) può garantire un utilizzo di questa musica anche al di fuori di quello che è stato l’utilizzo in occasione della sua prima esecuzione, con tempi e strutture celebrative estremamente più contenute. La struttura fondamentalmente antifonale con la possibilità di poter interrompere l’esecuzione per le porzioni più ampie nel momento in cui risulti necessario, rende liturgicamente funzionali tutte le altre parti della Missa Pie jesu Domine.

Attraverso un sapiente utilizzo delle melodie gregoriane, oppure la citazione della sequenza Dies irae, permettono di mantenere uno stretto collegamento con la tradizione del canto romano antico come specificato in Sacrosanctum Concilium, e dallo stesso parte per costruire le sapienti strutture polifoniche improntate ora alla classicità, ora con reminescenze barocche, ma sempre rese attuali e collegate con il passato attraverso un continuo gioco di alternanza tra modalità e tonalità, oltre che grazie allo sfruttamento del sistema delle tonalità parallele che si muove appunto in questa direzione.

Le ampie aperture melodiche ed armoniche, il senso di completo coinvolgimento dell’ascoltatore permette allo stesso di avere un momento di sollievo dal dolore legato alla perdita del defunto, corroborato dalla partecipazione dell’intera comunità nel canto delle parti gregoriane e delle antifone composte “ad hoc” da Liberto.

La partecipazione popolare, actuosa participatio, è proposta e richiesta senza concedere nulla al dilettantismo, all’approssimazione e ai passaggi musicalmente banali e ovvi.

La presenza di vari attori musicali della liturgia è sapientemente distribuita nelle varie parti della Messa (solista, coro, assemblea e organo) in base alla necessità ed al risultato funzionale/artistico cercato e richiesto.

È pur vero che non in tutte le parrocchie e in tutte le chiese cattedrali, è a disposizione una Cappella Pontificia Musicale “Sistina”, ma questo, a mio parere, dovrebbe far capire a tutti quanti coinvolti nell’ambito musicale sacro che sulla musica liturgica di qualità bisogna investire per avere musica e musicisti all’altezza della situazione a disposizione per poter degnamente lodare il Signore e altrettanto degnamente, in questo caso, dare l’estremo saluto al defunto, facendogli pregustare in terra l’armonia che in futuro troverà, secondo la concezione cristiana, in paradiso.

È di questi compositori – di quelli che “volano alto” e che riescono a mettere in circolo le loro competenze musicali, artistiche, poetiche, letterarie, teologiche, liturgiche, etc. – che la chiesa ha bisogno per ridare vigore e senso alla musica “sacro-santa” liturgica e permettere ai fedeli e non, di godere della bellezza in tutti i sensi (musica, pittura, scultura, architettura) che non può che salvare e riportare a Dio e ai fratelli.

Video della celebrazione delle esequie di San Giovanni Paolo II in piazza San Pietro.

NOTE

[1] Già “Sacrosanctum concilium” al n. 81 recitava:”Il rito delle esequie esprima più apertamente l’indole pasquale della morte cristiana”.

[2] Cfr. Costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia “Sacrosanctum Concilium” n. 10 (1963).

[3] Costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia “Sacrosanctum Concilium” n. 112 (1963).

[4] Idem.

[5] Cfr. “Ordo exsequiarumRomani Pontificis” (2000).

[6] cfr. Graudale Triplex, pagg. 668 – 704

[7] cfr. Graduale Triplex, pagg. 767 e 768.

[8] Una descrizione sintetica ma completa è riportata in “Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, Sede apostolica vacante – eventi e celebrazioni aprile 2005, Libreria Editrice Vaticana Città del Vaticano, 2007, pag. 220: La Messa esequiale, in cui avviene la tumulazione del Romano Pontefice, è preceduta dalla deposizione della salma nella bara e dal rito della chiusura. Dopo che il Cardinale Camerlengo introduce tale rito, il Maestro delle Celebrazioni Liturgiche dà lettura del Rogito i cui esemplari verranno sottoscritti dai presenti. Nel frattempo la schola canta l’antifona gregoriana “Sitivit anima mea”. Il canto del Salmo 41 “Quemadmodum desiderat cervus ad fontes acquarum” accompagna la chiusura della bara. Subito dopo ha inizio la celebrazione della Messa esequiale. Le polifonie in essa eseguite, che si alternano con la tradizionale “Messa da requiem” in gregoriano, sono state composte appositamente per il rito. Ad introitum l’antifona gregoriana “Requiem aeternam”, cantata dall’assemblea, viene alternata con i versetti del Salmo 64 “Te decet hymnus” eseguito dalla schola con varia ed elaborata polifonia. Anche il “Kyrie”, il “Sanctus” e l’”Agnus Dei” sono stati composti in forma dialogica tra il gregoriano e una essenziale, ma efficace polifonia. Il Salmo responsoriale “Dominus pascit me”viene eseguito in canto gregoriano. Il versetto al Vangelo, “Haec est voluntas Patris mei, ut omnis qui videt Filium et credit in eum habeat vitam aeternam”, è cantato a cinque voci dispari dalla schola con “Aleluia” pasquale in gregoriano. Il Credo apostolico è professato in canto dall’assemblea che, con un incisivo e solenne “Credo Amen”, si alterna ai versetti in polifonia omofona a quattro voci pari. Ad offertorium, l’antifona assembleare “Tu illuminas lucernam meam” è di nuova composizione e si alterna con tre versetti in polifonia tratti dal Salmo 18. Ad communionem, i versetti del Salmo 129 “De profundis”, polifonicamente elaborati in modo da sottolineare musicalmente l’espressività, hanno come risposta assembleare l’antifona gregoriana “Lux aeterna”. Detta l’orazione dopo la comunione, si compie il rito dell’ultima raccomandazione e del commiato. Dopo la monizione del Cardinale Decano, segue la supplica della Chiesa di Roma e si cantano le litanie dei santi. Successivamente, anche le Chiese orientali cantano la loro supplica secondo l’Ufficio dei Defunti della Liturgia Bizantina. A conclusione della Messa esequiale, durante l’aspersione e l’incensazione della salma del Santo Padre, si canta il responsorio “Credo quod redemptor”. La prima parte di questo canto è eseguita dalla schola in polifonia a sei voci dispari; il responsum “Et in carne mea” è affidato all’assemblea; i solisti intonano, in un elegante recitativo, i versetti “Quem visurus” e “Reposita est”. Il rito si conclude cantando insieme l’antifona gregoriana “In paradisum”. Mentre il feretro del Romano Pontefice viene portato nel luogo della sepoltura, viene cantato con commosso entusiasmo il “Magnificat”: ai versetti cantati dalla schola con solenni polifonie, risponde l’assemblea con il modo VIII gregoriano. Le spoglie del Papa vengono portate dalla Basilica nelle Grotte Vaticane. In questo momento, la preghiera è guidata dal canto delle antifone gregoriane “Te suscitiate”, “Aperite mihi” e “Ingrediar”, che vengono alternate con i Salmi 113, 117 e 41. Mentre la bara viene deposta nel sepolcro, viene invocata da tutti la Mater Misericordiae con il canto della “Salve Regina”.

[9] Fu pubblicata nel 2005 dalla Libreria Editrice Vaticana come 5° numero della collana “Liturgica poliphonia – canti della Cappella Musicale Pontificia Sistina”, collana interamente dedicata alla produzione del M° Giuseppe Liberto.

[10] Vangelo di Giovanni 6, 40.

[11] Officium de Liturgicis Celebrationibus Sommi Pontificis: Ordo Exsequiarum Romani Pontificis, Edizioni Civitate Vaticana, Città del Vaticano 2000

[12] Cfr. G. Liberto “Messa Ottava” Edizioni Vivere In – Palermo, 1992

[13] E’ interessante da questo punto di vista uno studio di Crispino Valenziano sulla triplice circolarità della struttura del rito liturgico. Cfr. Crispino Valenziano “L’anello della sposa” Edizioni Qiqaion – Biella, 1993.

[14] S. Agostino “Confessioni” capitolo II, 3-5

Autore

  • Claudio Magni è diplomato in Musica Corale e Direzione di Coro, laurea specialistica in Musicologia sacra. È diplomato al Co.Per.Li.M., in Direzione di coro, Musicologia liturgica, perfezionamento presso l'Università Pontificia Lateranense e presso il Conservatorio di Bologna. Ha frequentato il corso triennale all’Accademia dei Cantori Gregoriani, ha seguito corsi di perfezionamento con G. Acciai, M. Mora, F. Rampi, l. Buzzavi, M. Berrini. È docente di ruolo di musica, organista titolare del Santuario di Sotto il monte, Maestro della Cappella Musicale del Santuario, direttore del coro della Basilica di Pontida, del coro Sine nomine di Milano. Collabora con la Schola gregoriana del duomo di Bergamo, con il Coro nazionale “G.M.Rossi” di Roma e con il Coro da camera dell’Università Statale di Milano. È direttore dell’Ensemble “In Chorum” di Bergamo. È membro della Commissione Liturgica della Diocesi di Bergamo. Si è occupato della parte musicale della Beatificazione, della Canonizzazione e della Peregrinatio del corpo di San Giovanni XXIII.

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Claudio Magni è diplomato in Musica Corale e Direzione di Coro, laurea specialistica in Musicologia sacra. È diplomato al Co.Per.Li.M., in Direzione di coro, Musicologia liturgica, perfezionamento presso l'Università Pontificia Lateranense e presso il Conservatorio di Bologna. Ha frequentato il corso triennale all’Accademia dei Cantori Gregoriani, ha seguito corsi di perfezionamento con G. Acciai, M. Mora, F. Rampi, l. Buzzavi, M. Berrini. È docente di ruolo di musica, organista titolare del Santuario di Sotto il monte, Maestro della Cappella Musicale del Santuario, direttore del coro della Basilica di Pontida, del coro Sine nomine di Milano. Collabora con la Schola gregoriana del duomo di Bergamo, con il Coro nazionale “G.M.Rossi” di Roma e con il Coro da camera dell’Università Statale di Milano. È direttore dell’Ensemble “In Chorum” di Bergamo. È membro della Commissione Liturgica della Diocesi di Bergamo. Si è occupato della parte musicale della Beatificazione, della Canonizzazione e della Peregrinatio del corpo di San Giovanni XXIII.