Alejandro De Marzo
L’interessante tema di questo numero mi invita a poter contribuirvi dalla mia prospettiva di animatore musicale della Liturgia al servizio di diverse comunità parrocchiali e perciò in un certo modo portato a riflettervi da tempo. Difatti è proprio dalla frequentazione di assemblee diverse (e riunentesi per motivi diversificati) che mi è stato possibile far caso ad alcuni aspetti di cui vado subito a trattare, nonché aver potuto rilevare anche come i princìpi direttamente tracciati (o indirettamente desumibili) dai documenti magisteriali sull’animazione liturgica siano sempre straordinariamente proficui e lungimiranti.
La voce umana (“miracolo” e “mistero” del Creato) è di fondamentale importanza nella comunicazione sociale (proprio attraverso il canale vocale passa la gran parte delle nostre attività) sebbene sia notevole l’automatismo e la disattenzione con cui viene perlopiù utilizzata. Ognuno dispone della ‘propria’ voce, unica e distintiva alla stregua di un’impronta digitale, e l’emissione/fonazione di ciascuno molto rivela dei moti dell’animo, delle fasi di vita, delle condizioni di salute contingenti in cui ci si trova. Non a caso, è soprattutto con la voce che siamo chiamati a dar gloria a Dio, a dialogare con Lui, nelle avversità e nelle occasioni di gioia dell’esistenza, ed è la fusione delle voci che, giorno per giorno, edifica le nostre comunità rinsaldando i vincoli di fraternità e l’unità di menti e cuori sotto il profilo espressivo/culturale.
La voce è il più potente strumento musicale a disposizione, addirittura anche in chi si definisce ‘stonato’ (la musica infatti non è solo costituita da note e suoni ma anche da rumori e silenzi!), e certamente per la finalità liturgica si richiede una premura speciale nel prevedere e stabilire, ad esempio, quale sarà la voce ‘guida’ della celebrazione (per i vari commenti esplicativi dei momenti rituali o per le indicazioni pratiche) ma soprattutto quali saranno le voci ‘soliste’ cui affidare le strofe dei canti e quale la voce per far intonare i ritornelli dell’assemblea. Del resto non senza importanza sono le voci dei cantori (schola o coro improvvisato che sia) poiché durante una qualsiasi celebrazione ogni corale liturgica sostiene il canto dell’assemblea ma ne è invero anche una ‘figura metonimica’ (cioè la rappresenta sinteticamente). A motivo di ciò, allora, deriva la consapevolezza che serve una cura davvero inusuale ‘sull’impasto” delle voci che dovranno intervenire nell’azione liturgica, per garantire la migliore prestazione ‘artistica’ ma nel rispetto delle identità specifiche delle comunità volta per volta celebranti (talvolta si fa presto ad assoldare cantanti di professione che tuttavia in nulla corrispondono all’autenticità e congruenza con le persone che siedono in assemblea!). Ben si comprende perciò che quello che sembrava un particolare inavvertito e scontato assume nuova luce, e si riveli assolutamente non privo di rilevanza performativa.

È utile riscontrare che nella scelta delle voci adatte alle esigenze rituali bisogna tener conto di diversi parametri, primo fra tutti quello ‘sociologico’ della composizione assembleare. È agevole rilevare come le nostre assemblee ‘ordinarie’ (nella prassi frequente quotidiana) siano prevalentemente composte da donne, di età spesso avanzata, e dalle capacità vocali non sempre ‘allenate’. Diversamente invece dalla “Messa del Fanciullo” in cui la preminenza della fascia d’età minorile giustifica (e ben condiziona) che a guidare il canto dell’assemblea sia un coro di voci bianche con solisti scelti tra quelle stesse fila. Ciò non soltanto per motivi prettamente canori (es: di commensurabilità tra le reciproche estensioni vocali) ma appunto per il significato già anticipato di emblematicità “simbolica” con l’assemblea che rappresenta.
Per la sua funzione di guida e di riferimento sonoro, la voce del solista che intona i canti (ma anche di colui cui vengano assegnate soltanto le strofe) deve poter essere limpida, sicura, con la capacità di saper articolare le parole, oltre che ovviamente intonata. Ma per la finalità di preghiera e di servizio all’azione rituale in cui interviene non basta, occorre sia soprattutto una voce paradossalmente ‘non protagonista’ ovvero semplice, sobria, ‘non narcisista’. Una voce che certamente non può mancare della distintività timbrica personale e fisiologica, ma che sappia farsi ‘ancella’ del momento rituale, umile ‘strumento’ di realizzazione del canto sotto il profilo della melodia e della declamazione del testo. Ci rendiamo conto, allora, come la scelta non possa cadere esclusivamente sulle ‘migliori voci’ a disposizione, per una mera ragione estetica o logica di valorizzazione professionale, bensì vada a intersecare l’ambito di ciò che la specifica voce in esame può comunicare sotto il profilo spirituale e liturgico a quanti saranno in ascolto. Se appunto è fortunatamente chiaro che durante una qualunque liturgia non si tratta di ‘fare concerto’, ritengo conveniente spendere qualche ulteriore parola per spiegare meglio il rapporto “voce-liturgia” in quanto sono elementi connessi tra loro con una valenza per così dire ‘mistico-ascetica’, si attiva cioè in gioco un profondo (e altrettanto sottovalutato) legame che afferisce alla sfera del cammino interiore e della progressione pastorale della comunità celebrante. Evidente, ad esempio, nella vocalità dei nostri fratelli Ortodossi, strettamente eredi della patristica cristiana che ci insegna a considerare il flatus vocis di ognuno quale la manifestazione eccelsa (signum) dell’anima che emette tale ‘spiritus’ (animum).
Ne deriva, pertanto, una implicazione al contempo sorprendentemente avvincente ed inquietantemente ardita: la voce-guida del cantare liturgico deve essere ‘santa’, sia in quanto ‘mistagogica’ nel senso che le è peculiare ‘offrirsi’ artisticamente nella missione affidatale a servizio del contesto cultuale, sia in quanto ‘iniziatica’ nel senso che – essendo soggetta alla naturale imitatio (tecnico-espressiva e psico-identitaria) dei componenti tutti dell’assemblea – implicitamente si porge alla comune percezione quale exemplum delle caratteristiche di sobrietà, linearità, nitidezza poc’anzi evidenziate. In fondo, dunque, è in atto la medesima dinamica psico-sociologica che Simon Frith aveva illustrato riguardo le voci dei cantanti pop, spiegando come si instauri una relazione tra l’artista e la platea in ascolto che si basa principalmente sul trasferimento/circolazione di “marche identitarie della persona” anziché sul gradimento e bellezza della musica/brano veicolata. Nello specifico della Liturgia, similmente, le sopra derubricate caratteristiche vocali da prediligere non funzionano soltanto per garantire la chiarezza dell’esposizione e la qualità tecnica dell’esecuzione solista, bensì collaborano fortemente all’instaurarsi (per una sorta di catechesi implicita) di una ‘formazione’ delle personalità oranti nel quadro della mentalità liturgica post-conciliare. Oltre a convergere nel determinare l’assetto ‘accogliente’ e inglobante delle altre voci dei partecipanti all’assemblea liturgica (per farli agevolmente inserire cantando anch’essi, sentendosi incoraggiati) le succitate ideali caratteristiche della vocalità del solista-guida si costituiscono esse stesse, insomma, quali ‘virtù morali’ valorizzate ed auspicabilmente esportabili mediante il canale musicale.
Mi rendo conto che è arduo incontrare ed ottenere sempre disponibili le voci ‘giuste’ in base ai criteri finora emersi. Alcuni accorgimenti possono però aiutare nel quotidiano ad assicurare quanto possibile.

Veniamo ad analizzare almeno 3 variabili: timbro, tonalità, scelta repertorio. Se ad intonare è una voce maschile (fisiologicamente all’ottava sotto quella femminile) può esser probabile che un’assemblea a maggioranza femminile incontri difficoltà in certi passaggi di canti, e viceversa. A ciò si collega il discorso sulla tonalità dei canti, da dover adattare all’assemblea che concretamente si ritrova a celebrare quella determinata liturgia, e a catena anche la questione della scelta del repertorio musicale (che non può esimersi dallo studio oculato delle ‘disponibilità vocali’ che in effetti lo interpreteranno). Val bene ricordare, infatti, che quanto si discute sul tema della ‘voce’ nella Liturgia debba valere non solo per le celebrazioni solenni e a gran affluenza di fedeli, ma per ogni ‘comune’ messa feriale animata (ed è per questo che il servizio dell’animatore liturgico non si improvvisa, e andrebbe meglio apprezzato a pieno).
Giungiamo così a quei princìpi fondamentali della Sacrosanctum Concilium che danno dignità e valore a ogni liturgia che si celebri, indipendentemente dalla lingua utilizzata e l’occasione dell’Anno Liturgico. In ogni evenienza rituale siamo tutti protagonisti, a vario ruolo, e con l’autenticità dei gesti e la verità delle nostre possibilità espressive e limiti comunicativi. Non bisogna sentirsi inadeguati o talentuosi, serve accudire le nostre persone con l’intento di continuare il cammino di santificazione, e prendersi “cura” l’uno dell’altro anche sotto il versante estetico. Il che significa assicura una preparazione adatta a ogni celebrazione, studiandola per ogni livello organizzativo, e nel rispetto dell’assemblea che celebra. Solo così si può sperare di fondersi davvero in “un sol cuore, un’anima sola”. E… una voce sola.