La vocalità liturgica: dalla spiritualità alla tecnica

Osservazioni preliminari

Sergio Militello


Il tema è affascinante e diversi sono i possibili approcci per una sua presentazione: da quello storico a quello estetico, da quello tecnico a quello spirituale. Per mantenere legati questi piani di indagine, come pure possibili altri, proponiamo qui alcune brevi osservazioni preliminari da cui risulta necessario rifarsi alla “prassi”, quale ambito esplicativo dell’uso della voce nei diversi contesti storici. Le forme del culto cristiano, infatti, si sono differenziate nel corso dei millenni e hanno dato origine a differenti riti e rispettivi canti che, per la loro esecuzione, presupponevano altrettanto diverse “vocalità”.

In realtà, l’espressione “vocalità liturgica” non compare negli autori antichi, in quanto essa sottintende già una sintesi (fatta a posteriori) delle modalità espressive maturate lungo i secoli e che richiedono di essere ri-considerate alla luce della liturgia rinnovata dal Vaticano II (del quale celebriamo il 60° anniversario della Costituzione Sacrosanctum Concilium).

Il motivo della accennata sintesi risiede nella considerazione di ridonare alla vocalità una sua coerente applicazione nell’espressione liturgica, evitando di lasciarsi “interpretare” al di fuori del suo contesto, ovvero non ponendosi nell’arbitrarietà dei variegati modi espressivi estranei all’azione liturgica e a ciò che questa richiede.

Per comprendere ciò risulta utile evidenziare come oggi l’approccio al canto liturgico (e, quindi, alla vocalità) sia non sempre adeguato e, forse, talvolta delimitato dal gusto personale di chi interpreta arbitrariamente quale sia il modo “conveniente” dell’uso della voce umana. In questo senso, è bene risottolineare che la liturgia è un ambito specifico e proprio, uno spazio espressivo non paragonabile ad altri, né è il luogo di una libera sperimentazione ove confluire tecniche vocali non consone e/o modalità canore “non educate” (tecnicamente si adopera la dizione di “voce impostata” per distinguerla dalla “voce naturale”, ma è su quest’ultima che ci si dovrebbe concentrare nella liturgia).

Su questo aspetto, contrariamente a quanto si possa auspicare, la storia della “musica sacra” non ci è però d’aiuto, poiché testimone di svariate modalità vocali, in contraddizione a quanto sopra accennato riguardo al necessario riferimento alla prassi liturgica. Infatti, scorrendo i vari secoli, si nota come si siano presentate modalità differenti di vocalità che si sono “autodeterminate” in relazione alle “forme musicali” via via adoperate e viceversa (dalla mezza-voce alla voce piena, dal sillabato al melismatico, ecc…): non si desidera qui passarle in rassegna, quanto far notare come da tali “lezioni di storia” dovremmo “trarre-ritenere-ripensare-rimodellare-rinnovare” una prassi canora che risulti confacente alle forme musicali usate oggi nella liturgia.

Certo, ci troviamo storicamente lontani dagli echi uditivi degli antichi cantori, come pure dalle testimonianze scritte circa l’uso della voce che – come anticipato – non ha mai avuto l’aggettivo di “liturgicità” (almeno come formulazione ufficiale). Tuttavia, possiamo trarre spunto da un’antica espressione del mondo post-ellenico, quella di pensare alla musica come «scientia bene modulandi». L’espressione, che inquadra l’oggetto della nostra riflessione, si riferiva precisamente alla “scienza del misurare [tenere il tempo] correttamente”, ma a questa espressione si riallaccerà più tardi Isidoro di Siviglia († 636) nelle sue Etimologie, quando ritrae la musica quale «peritia modulationis sono cantuque» (“perizia nel modulare suono e canto”). Sull’antica espressione e sull’interpretazione che ne dà Isidoro risulta utile, per il nostro contesto, soffermarci ora brevemente.

Innanzitutto, non deve sorprendere il termine “scienza” applicato alla prassi esecutiva: il vocabolo equivale a quello più moderno di “tecnica”, ma dagli antichi non adoperabile in quanto la tecnica era considerata come l’espressione materiale di una acquisizione, mentre la scienza connotava ogni attività di una perizia e di una attitudine propriamente spirituale, al pari dell’arte. La “modulazione” (modulatio) è da intendersi come il “modo” di porgere la voce umana, modo che l’aggiunta dell’avverbio bene contestualizza nella “precisione” del ritmo verbale e nella conseguente intonazione del verso.

Includendo nella pratica liturgica una vocalità attenta alla scelta del metro, l’atteggiamento basilare restava quello di una proclamazione-intonata del testo sacro attraverso una sorta di “cantillazione”, il cui termine è in realtà un neologismo delle lingue moderne per distinguerlo dal canto sillabato e/o regolato del metro, oltre che dal canto più melodizzante. Sebbene non adoperato nella chiesa antica, il termine risulta però mirato a descrivere la vocalità più adeguata nel contesto liturgico della recitazione dei Salmi, i cui testi offrivano ai Padri le argomentazioni di una copiosissima exspositio spirituale e apologetica della fede cristiana.

Ci appare oggi strano, per mentalità, pensare come già tale primario “gesto vocale” (una sorta di recitato intonato) fosse intrinseco ad un atteggiamento spirituale, prima che solo tecnico: al cantore, e al salmista in particolare, veniva richiesto “in primis” un’adesione interiore al testo cantato, condizione previa che influenzava di conseguenza un’abilità tecnica (scientia e peritia) nell’esplicare quello specifico officium (ministero) nella e per la comunità ecclesiale.

Oggi, forse, si mette in primo piano la tecnica, subordinando l’approccio spirituale che, in tal modo, non risulta così evidente o determinante nell’intonare la Parola di Dio. Ci sembra di non divagare dal nostro tema se si afferma come la perdita di una meditazione della Parola di Dio all’interno dell’esperienza del canto liturgico e, più in generale, del suo riferimento per ogni azione nella vita, incida anche nelle scelte di una vocalità efficace a favorire la meditazione, più che a richiamare l’attenzione sull’abilità tecnica del singolo cantore.

Questo cenno ci induce, dunque, a riconsiderare la centralità della Parola di Dio nella vita della Chiesa (cfr. cap. VI della Costituzione Dogmatica Dei Verbum del Vaticano II) e la priorità della Parola divina sulla parola umana, oltre che – di conseguenza – ad interrogarci sulle più consone modulationes (modi) di prestare la propria voce alla Parola, la Voce per eccellenza, affinché questa risuoni efficacemente per nostro tramite.

Al di là del contesto del canto salmodico e ritornando al tema della “vocalità liturgica” in tutte le sue declinazioni rituali, si può comunque concludere che essa è da intendersi come “nascondimento” dietro la Parola di Dio o, meglio, come umile mezzo affinché questa si declini in gesto sonoro. Per compiere ciò, prima della considerazione dell’adeguatezza di una tecnica, resta necessaria la prioritaria dimensione spirituale per consentirci di entrare nella profondità della Parola attraverso una frequentazione della stessa e una sincera adesione al suo contenuto.

Così, dopo questo approccio esperienziale, si può iniziare a discutere sulle proposte delle tecniche di canto (da quella propria del solista a quella più generica dell’assemblea), in modo che la vocalità possa, comunque, risultare e riconoscersi propriamente e veramente “liturgica”.


Autore

  • Sergio Militello, nato nel 1968, è compositore, direttore di coro, concertista, musicologo, docente universitario. Ha ricoperto diversi incarichi e ministeri: Direttore dell’Istituto di Musica dell’Arcidiocesi di Firenze, Maestro di Cappella e Organista Titolare del Duomo di Firenze, Membro della Consulta di “Musica per la liturgia” presso l’Ufficio Liturgico Nazionale della CEI, Professore presso la Schola Puerorum della Cappella Musicale Pontificia «Sistina», Organista alle celebrazioni quotidiane del S.Padre in Vaticano dove è conosciuto come “Il maestro di Santa Marta”. Docente presso importanti istituzioni accademiche tra cui la Pontificia Università Gregoriana ed esperto in musicologia liturgica, tiene conferenze, pubblica articoli e saggi, tra cui "Il sogno musicale di un Paradiso in Terra" (LEV 2018), Teologia della Musica (Queriniana 2021), Spiritualità della Musica, Canto e Musica nella III edizione italiana del Messale Romano, Mistagogia della Musica (San Paolo 2021-22). Esegue concerti in Europa, Australia, USA, Canada, Sudamerica, Asia, Russia, esibendosi sui più grandi e importanti strumenti del mondo. Dal 2002 cura il Portale web «Centro Diffusione Musica Sacra».

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Sergio Militello, nato nel 1968, è compositore, direttore di coro, concertista, musicologo, docente universitario. Ha ricoperto diversi incarichi e ministeri: Direttore dell’Istituto di Musica dell’Arcidiocesi di Firenze, Maestro di Cappella e Organista Titolare del Duomo di Firenze, Membro della Consulta di “Musica per la liturgia” presso l’Ufficio Liturgico Nazionale della CEI, Professore presso la Schola Puerorum della Cappella Musicale Pontificia «Sistina», Organista alle celebrazioni quotidiane del S.Padre in Vaticano dove è conosciuto come “Il maestro di Santa Marta”. Docente presso importanti istituzioni accademiche tra cui la Pontificia Università Gregoriana ed esperto in musicologia liturgica, tiene conferenze, pubblica articoli e saggi, tra cui "Il sogno musicale di un Paradiso in Terra" (LEV 2018), Teologia della Musica (Queriniana 2021), Spiritualità della Musica, Canto e Musica nella III edizione italiana del Messale Romano, Mistagogia della Musica (San Paolo 2021-22). Esegue concerti in Europa, Australia, USA, Canada, Sudamerica, Asia, Russia, esibendosi sui più grandi e importanti strumenti del mondo. Dal 2002 cura il Portale web «Centro Diffusione Musica Sacra».